In questo libro si avanza l’ipotesi che l’Architectura Vulgaris, vale a dire quel proliferare di strutture in disfacimento, di agglomerati edilizi incoerenti, di territori inutilizzati alla periferia di ogni metropoli, dove più inefficace sembra essere stato il ruolo ordinatore del progetto, non sia solo una sorta di varietà urbana infestante, ma l’ambiente fecondo dove germogliano le forme più spontanee del costruire.
Si avanza anche la speranza che possa rivelare i segni epocali di un’architettura nuova, capace di inserirsi negli interstizi dell’esistente, rimodellando senza distruggerne la storia e l’immagine e risolvendo in modo non devastante le contraddizioni di una crescita urbana altrimenti non più recuperabile.
Si suggeriscono inoltre i criteri guida con cui le forme spontanee della città, le leggi organizzatrici del suo sviluppo e la geometria latente delle sue articolazioni caotiche possano generare energie capaci di rinnovare dall’interno quegli immensi territori dequalificati che nessuna ruspa potrà mai più cancellare.